Uscire dal proprio recinto o rimetterne in movimento i confini. Le domande filosofiche sono libere dalle risposte oggettive. E non hanno data di scadenza.
di Federico Levy. Articolo pubblicato per la prima volta nel sito www.benessereitalia360.it il 15 Maggio 2018
Domandare.
Che cos’è la verità? Qual è il nucleo fondamentale di tutto ciò che esiste?
Qual è il bene per la vita e il segreto della felicità?
Cos’è l’Uomo? E la giustizia?
Come funziona la natura?
Vi sono domande che vengono poste da circa 25 secoli, senza aver ricevuto una risposta definitiva. Sono quelle sul senso ultimo delle cose. Che la filosofia porge di continuo all’umanità e alla natura al di là di noi.
Domande che non hanno ancora trovato una risposta univoca e definitiva e che anzi si sono moltiplicate insieme alle possibili risposte e ai loro rispettivi orientamenti. Sono domande che scompigliano le carte e fanno crollare i castelli.
Non fortezze ma babeli di senso, crocevia di linguaggi spesso in eterna lotta tra loro, esse dividono talora i terrestri in due schieramenti diversi solo all’apparenza.
Finché c’è domanda c’è speranza
Da un lato coloro che, ritenendole di fatto irresolubili, le giudicano inutili ai fini di ciò che, nella vita, conta veramente; dall’altro i tenutari di un compendio di sapienza esclusiva. Questi ultimi sembrano convinti d’aver ricevuto da qualche scuola di pensiero il Bignami dei misteri dell’Universo e se lo fanno bastare.
Si tratta in realtà di un modo opposto di agire la medesima opzione: allontanarsi dagli interrogativi ultimi, lasciandoli ai pochi appassionati della diatriba infinita o, più prosaicamente, della masturbazione mentale: i filosofi.
Eppure non dobbiamo aver paura di porci domande scomode e cruciali, comprese quelle destinate a mancare l’appuntamento con la risposta definitiva.
Domandarle significa mettersi in movimento; e se è vero che “finché c’è vita c’è speranza” e la vita è movimento, possiamo aggiungere che “finché c’è movimento c’è speranza”. Inoltre, se il movimento avviene con l’interrogazione, allora il domandare è già un modo per ricominciare a sperare.
Scrivere con il martello?
Dico questo, en passant, in parziale polemica con chi dispera perché non trova risposte (quindi anche con una parte di me stesso!). Perché l’opposto della disperazione, ovvero la speranza, è abitata dalla domanda e non dalla risposta. E una domanda ben posta, capace di mettere in movimento il pensiero e l’essere tutto intero, ha un valore esistenziale maggiore di una risposta mal fatta.
In realtà, mi pare un malinteso di fondo che ci si senta in diritto di giudicare il valore di una domanda universale a partire dalla misura di un sistema individuale di bisogni e scopi organici.
Come si può pensare che un interrogativo universale abbia un senso immediatamente concreto per un individuo? Certamente, se pretendo di scrivere con un martello ne concludo che il martello non serve a nulla! E il punto è proprio questo: misurare le domande filosofiche col metro buono per quelle di tutti i giorni.
Le domande filosofiche e la filosofia pratica
Il pregiudizio diffuso e imperante che sembra gravare sulla filosofia fa leva in realtà su una certa idea circa il significato delle domande: che, cioè, l’obiettivo reale e il senso ultimo di ogni quesito consista in una risposta oggettiva. Vale a dire in un oggetto inerte con cui fare cose. Può ben essere così in molti casi. Non servirebbe, domandarsi come si costruisce un sito web senza risposte che mettano in condizione di costruirlo. E nemmeno chiedere «Posso avere due etti di prosciutto?»se non ci fosse un pizzicagnolo pronto ad affettarlo e a dire: «Sono due etti e mezzo. Che faccio, lascio?». Esistono però domande che non prevedono risposte definitive per poter “essere utili”. Esistono domande… utili perché sono “inutili”. Le domande filosofiche, appunto. Il cui valore consiste giusto nell’essere poste come domande della coscienza nella coscienza stessa e che, a differenza del prosciutto, non vanno mai a male.
Domandare, non demandare
Sono domande che favoriscono un certo “modo di stare al mondo”; foriero, sempre, di tesori inaspettati.
Per riuscire a cogliere l’utilità delle domande filosofiche inutili occorre sapere come farle “funzionare”. Come renderle produttive.
Due sono, in relazione a ciò, le dinamiche possibili per l’individuo.
Nel primo caso si tratta di spostarsi in direzione della trascendenza dell’universale della domanda. Partire dal fuori per espandere il dentro. Ciò che avviene ogni volta che faccio mia una domanda universale quale «Cosa è la giustizia?» e la interrogo. Tenendo conto che i tesori che vi si nascondono prevedono l’uscita dal confine concreto dell’esistenza in direzione dei segreti fisici e metafisici del mondo.
Nel secondo caso si tratta di rimettere al centro il modo con il quale penso il mondo e me stesso. Di partire dalla mia particolare visione del mondo per allargarne le maglie da dentro e fare entrare la luce del fuori.
Aprire la coscienza all’essere e al pensare
Per arrivare a questo la filosofia pratica riordina le domande ultime della filosofia dalla loro foggia universale rivolta all’umanità in una foggia particolare, nel raggio d’azione dell’esistenza concreta. Lo ha mostrato il fondatore della pratica, il filosofo Gerd Achenbach, ripensando le note questioni di Kant nella forma di “domande della consulenza filosofica”. Interrogativi come: Che cosa posso sapere? Cosa devo fare? Cosa posso sperare? Cos’è l’uomo? diventano dunque: Che cosa so? Che cosa faccio? Che cosa spero? Chi sono?
In entrambi i casi si tratta di rendere operativo il senso della domanda rimettendo in movimento il pensiero della coscienza. E quando la coscienza si rimette in movimento, si aprono possibilità nuove e inaspettate. A questo la filosofia può certamente essere di beneficio alla vita: aprire alla coscienza nuove possibilità di essere, di pensare, per rendere possibili inedite vie di evoluzione positiva dei tracciati della propria esistenza.