Nel totalitarismo della società mercantile ultima contemporanea, proviamo a rivendicare il diritto alla responsabilità come via di libertà
di Francesca Guercio
«Quand’è che siamo diventati stronzi?» si chiedeva Paolo Di Paolo in un romanzo di qualche anno fa. A me viene, oggi, di domandarmi: Perché siamo diventati stronzi?
Giacché il fatto di esserlo diventati mi pare davvero incontrovertibile.
E se è vero che un processo di recupero può senz’altro essere tentato, è bene ravvisare le cause della degenerazione, attribuire colpe e assumercene. Mantenendo consapevolezza della difficoltà dell’impresa e vigilando sulle connivenze col “sistema” di cui ci macchiamo più o meno consapevolmente.
Salta agli occhi la violenza con la quale è stato disatteso il ben noto precetto kantiano esposto nella Fondazione della metafisica dei costumi:
Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.
Il totalitarismo economico – forma di governo geograficamente trasversale dell’era contemporanea – ha avuto bisogno di scardinarlo per trionfare.
LIBERI DI ESSERE SCHIAVI
Nella (in)civiltà del marketing, come in tutti gli apparati totalitari, il vessillo del rendimento tortura col ricatto della fretta una collettività che conta più della persona. La conseguenza, ovvia e difficilmente evitabile, è che la persona perda la piena responsabilità delle proprie azioni.
La scansione eterodiretta del tempo che sottrae all’arbitrio individuale il lavoro e il diporto rende inoppugnabile l’eventuale invettiva contro chi dovesse rallentarci la corsa. Autorizzandoci a parcheggiare senza curarci di bloccare altre auto, a scavalcare file passando avanti a tutti, a strattonare passanti senza voltarci per chiedere scusa. L’incapacità ottusa di guardare l’altro nella sua umanità piuttosto che come semplice mezzo dei propri scopi, trasforma opachi travèt in arditi del furtarello più o meno organizzato ai danni di altri lavoratori. Le persone che mi sono vicine sanno quanto mi accalori, per esempio, l’essere truffata addirittura in ambito scolastico. Per la conduzione di un corso mai retribuito.
SIAMO SULLA STESSA BARCA?
L’assenza di compassione, di dignità e di etica nelle docenti e nella direttrice didattica coinvolte nella frode, mi ha particolarmente turbato. Perché si tratta di figure alle quali, per tradizione culturale, ritengo competa un’esemplarità educativa oltre alla trasmissione di un sapere libresco.
Eppure, non è difficile intravedere come l’immoralità dell’equipeche ha ritenuto lecito non corrispondermi gli emolumenti pattuiti si nutra del metodico smantellamento delle istituzioni scolastiche. Una delle malfattrici mi ha esplicitamente detto: «Non posso farci nulla: siamo sulla stessa barca». E benché sia arduo comprendere come un’impiegata regolarmente stipendiata ritenga di essere “sulla stessa barca” di una libera professionista, dovremmo pur credere che è ciò che prova! Gli insegnanti italiani sono tra i lavoratori più vessati degli ultimi trent’anni. Retribuiti con stipendi inadeguati all’impegno, alla fatica e alla formazione richiesti. Ridotti all’angolo da riforme esecrande che ne ostacolano la potenzialità di salvare i ragazzi dall’incultura e dalla zoticaggine.
DEMOLIZIONE DELLA SCUOLA E STATI D’INCOSCIENZA
Spesso bullizzati dagli studenti e dai loro genitori, secondo uno studio del 2018 il 67% di loro era affetto da sindrome da burnout. In ragione del confine che abitano, tra famiglia e società, e in quanto detentori ufficiali del titolo di pedagoghi parrebbero vittime privilegiate. In prima linea tra i guasti di questa speciale forma di totalitarismo che impone la barbarie dell’uomo come mezzo. Di un sistema che chiama l’industria al tavolo delle trattative sulle materie d’insegnamento. E depriva milioni di giovani del diritto e del piacere di sapere insistendo su un fantomatico saper fare, peraltro nella maggior parte dei casi disatteso. Rimando a un dettagliato excursus intitolato Smantellamento della scuola pubblica. Una cronistoria per capire quando è cominciato quanti volessero conoscere le tappe della demolizione.
E provo a riflettere sulla sconfitta in termini di coscienza e civiltà che tale processo comporta.
LA BANALITÀ DELLA MASSA
In una dimensione in cui, con Martin Buber, l’esistenza della persona “deriva” da una verità collettiva è facile pretendere che sia il sistema a proscioglierci da inadempienze e aggressività individuali.
La massa o permette una totale assenza di pentimento e di responsabilità, oppure indebolisce nel singolo la responsabilità, riducendola alla grandezza di un frammento.
scrive il filosofo dell’intersoggettività in Il principio dialogico.
Ascolto in seduta di consulenza resoconti sconcertati di piccole o grandi spregevolezze quotidiane e io stessa ne registro con cadenza ormai esponenziale. Ma più ancora del computo dei fatti, addolora la constatazione della noncuranza con la quale vengono perpetrati.
Veniva presentato come una grottesca eccezione, nel 1963, il modello genitoriale interpretato da Ugo Tognazzi nel film di Dino Risi I mostri. Nell’episodio L’educazione sentimentale un padre corrompeva il figlio bambino con regolari saggi di canagliate da presunto “vincente”. Salvo finire vittima della sua stessa barbarie: derubato e ucciso dal rampollo divenuto adolescente.
LA RESPONSABILITÀ COME DIRITTO
Per quanto biasimevoli, gli ammaestramenti di quel padre presentavano, almeno, un carattere di intenzionalità. Che conteneva perciò i germi di un possibile ravvedimento. Ma laddove sfolgori l’evidenza della straordinaria intuizione di Hannah Arendt sulla «banalità del male»un’inversione di tendenza pare chimerica.
Se una via di redenzione dall’abbrutimento contemporaneo esiste, allora, essa non può che partire dalla pretesa del singolo di rivendicare a tutti i costi il diritto alla responsabilità.
Già, perché se la responsabilità porta con sé il peso della scelta e l’alea della colpa garantisce altresì l’unico accesso praticabile verso pienezza e libertà.
Ancora nel Principio dialogico riflettiamo sul fatto che
Una vera comunità, un vero essere comune si realizzeranno solo nella misura in cui vi saranno veri singoli, nella cui esistenza responsabile la dimensione pubblica si rinnova.
Proprio delle creature umane è manifestarsi come persone in relazione con gli altri; ciò che non esclude la consapevolezza dell’individualità.
L’ALTRO COME PRIVILEGIO
La dimensione pubblica, infatti, non risucchia il singolo. Giacché la soggettività può dirsi autentica solo quando tiene presente a sé sia il legame sia la separazione. Scegliendo una responsabilità che non è possibile chiedere alla massa: la necessità di tornare sempre alla relazione io-tu.
Oggi, come negli anni Trenta del Novecento in cui il saggio venne redatto, inchiodati come siamo alla croce del mondo, amare gli uomini significa osare l’inaudito. E, oggi come allora, è una forma di ardimento necessaria. Giacché nell’amore, ovvero nella «responsabilità di un io verso un tu», si realizza la liberazione dai tempi che dettano «ciò che è possibile o ammesso».
Esercitarsi a riconoscere l’Io nel Tu come plausibile emancipazione dal dispotismo di una società mercantile. Cui è indifferente il fatto che si sia sempre più disonesti, analfabeti e incivili.
Né isolati né massificati, si diventa davvero se stessi rimanendo disponibili all’incontro con l’alterità.