Felicità, una questione quanto mai centrale per l’equilibrio esistenziale e da “agguantare” con atteggiamento filosofico. Vediamo come.

di Federico Levy

Felicità, un dato di fatto

Iniziamo dai dati di fatto: ognuno di noi anela a conquistare un giorno, e a proprio modo, felicità e benessere. Si può immaginare un tema esistenziale più evidentemente essenziale per la qualità della nostra vita? Eppure il più delle volte è un desiderio che si rimanda, perché il presente è generalmente il luogo del dovere e del crudo realismo quotidiano.

Immaginarsi felici e prosperi almeno in un qualche orizzonte temporale di un futuro immaginifico, tuttavia, quello sì è capitato praticamente a ognuno di noi. E sebbene sia sempre opportuno riconoscere il valore di quelle fantastiche facoltà dell’intelletto umano come il sogno e la speranza, a buon diritto molti di noi cercano di andare oltre la categoria del possibile e nutrono, rispetto alla prospettiva della felicità, il desiderio di processi di realizzazione concreti e duraturi già nel cosiddetto “qui ed ora” della propria vita.

Né illusi né scoraggiati

Certo, l’idea della ricerca della felicità può suonare un po’ Hollywood, New Age, o Costituzione degli Stati Uniti. Tre modi diversi per rappresentare comunque l’idea di un tema che risulta oramai abusato da certe pratiche di business della disperazione e di manipolazione mass mediale. E che quindi finisce inevitabilmente con il contagiarsi di un certo sapore di marcio e di plastica.

E ben fa allora chi oggi resiste con spirito scettico e disilluso a certi temi, perché è senz’altro preferibile non raccontarsi balle che pagare per farsele raccontare!

Permettiamoci però, nel coacervo caotico e strumentale della società odierna, di permanere nello spirito critico mantenendoci comunque coraggiosamente aperti alla ricerca di un nostro senso di stare al mondo e in contatto con le domande ultime dell’esistenza.

Filosofi della felicità?

Infatti se quest’ultime suonano un po’ puerili, illusorie, inutili o di plastica è perché tali sono le risposte a buon mercato che vengono quotidianamente proposte dallo sciocco e chiassoso flusso mainstream. Ma chi è davvero in ricerca non si lascia influenzare dal mainstream. Al contrario, nemmeno lo vede più. O semmai ride di esso!

Sotto questo aspetto, gli atteggiamenti di fondo di chi si illude o di chi ha rinunciato alla domanda sul senso della felicità hanno, generalmente, in comune un aspetto: che fanno della felicità un oggetto materiale e statico; l’uno acquistabile, l’altro irraggiungibile.

Intanto, se sul tema si brancola ancora – e da almeno qualche secolo – nel buio più nero, almeno un’ipotesi l’abbiamo portata a casa: che la felicità non sia propriamente un oggetto quanto piuttosto un cammino o per lo meno il vettore di direzione di una ricerca possibile.

Ricette (si fa per dire) della felicità

E allora accettiamola questa banalità e ammettiamo pure che il problema non sia allora inerente al se, ma al come trovare felicità e benessere. È qui che la questione perde la banalità, ed è qui che pure segna il passo chi si limita a sognare una felicità da rotocalco o romanzo rosa. Né illusi né scoraggiati, dunque. Ma – semmai – filosofi pratici della felicità.

La filosofia si è caratterizzata nella storia come la disciplina madre di ricerca della felicità. Giusto per fare un esempio, è celeberrima quella frase di Epicuro – che più che una massima è un progetto di vita – custodita nella famosa lettera a Meneceo:

“Chi dice che l’ora di filosofare non è ancora giunta o è già trascorsa, fa come chi dicesse che ancora non è giunta o è già trascorsa l’ora di essere felice.”

Eh, ma allora come essere felici?

Per mezzo del piacere, del potere, della virtù?

Da una combinazione dei tre?

Aristippo, filosofo fondatore dell’antica scuola Cirenaica, riteneva che il fine ultimo di ogni essere umano fosse unicamente il piacere, e che a questo alla fine equivalesse alla felicità. Ma piacere di cosa? Piacere per cosa? Immaginiamo un sadico maniaco cui sia consentito di torturare – a piacere, appunto – chicchessia; dovremmo pensare che sia la persona più felice del pianeta? Sarebbe in lui il segreto della felicità?

 

Nel Simposio di Platone troviamo scritto che felice è colui che “possiede bontà e bellezza”, ma cosa sono la bontà e la bellezza? E non dovrebbe essere, al contrario, infelice colui che sa la bellezza delle idee e vede intorno a sé la bruttezza del mondo?

Secondo Epitteto e la scuola stoica in generale la felicità non può che passare per un integerrimo “bastare a se stessi” disciplinando la propria pratica del desiderio. Dovremmo perciò rinchiuderci in una torre o mettere il nostro cuore in naftalina? O come sennò?

Oppure dovremmo dar retta al sofisticato Aristotele; per il quale la felicità sarebbe una «certa attività dell’anima svolta conformemente a virtù» la quale include la conoscenza dei beni esteriori e interiori e della giusta misura nel loro utilizzo? Ma qual è il metro della “giusta” misura?

Quattro salti nella virtù

Qua naturalmente ci siamo limitati a scherzare con i filosofi. A ognuna delle loro “ricette” dedicheremo qualche più approfondito articolo.

Due cose, intanto, è importante evidenziare:

1 – che la ricerca della felicità è una cosa seria;

2 – che la ricerca della felicità implica ricerca e pertanto è una questione in buona misura filosofica.

E certo già parlare di “ricette della felicità” è una provocazione. Anche se è pur vero che, come le ricette, anche le teorie della felicità appaiono tutte facili e buone sulla carta, ma per assaggiarle occorre saper mettersi ai fornelli. Però il paragone finisce davvero qua. Prudenza, giustizia, fortezza e temperanza sono qualcosa di più di 4 salti in padella. Cucinare la nostra ricetta della felicità richiede ricerca e conoscenza di sé. Il coraggio di scegliere che forma filosofica dare alla propria vita.

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