Assumiamoci la responsabilità di spegnere i cellulari e di non leggere i giornali. Bandiamo la tv e i social. Per qualche giorno, almeno, facciamo il vuoto.
Arriva l’estate e, con essa, un calo del livello energetico che certamente risente dell’aumento di temperatura e che tuttavia si verifica anche in circostanze diverse. Tali da giustificare un’attenzione “filosofica” al fenomeno.
Accade spesso, infatti, di avvertire la medesima sensazione quando, dopo essere stati costretti dalle circostanze a fatiche mentali e psichiche prolungate, ci troviamo alla vigilia della fine dei nostri sforzi. La liberazione coincide con il crollo del vigore. «Meno male che da domani sono in ferie», ci diciamo. O anche: «Che ho dato l’esame, che ho finito il corso di specializzazione, che non devo più passare tutti i giorni due ore sui mezzi pubblici per andare al lavoro… Non avrei retto un giorno in più!».
Sappiamo benissimo che, fatte salve circostanze davvero anomale o morbose, avremmo retto ancora per il tempo necessario alla conclusione naturale e programmata dell’esperienza.
Pratica del tempo e filosofia quotidiana
Nel linguaggio quotidiano la dimensione del tempo perde qualunque oggettività misurabile secondo l’SI (il sistema internazionale di unità di misura) e diviene senza dubbio una «forma a priori della sensibilità», per dirla con il Kant dell’Estetica trascendentale.
Interroghiamoci, allora, sull’esperienza privata e filosoficamente pratica del tempo.
Tempo e spazio sono le condizioni concrete del nostro essere gettati nel mondo e da qualunque parte si affronti il problema della ricerca e conoscenza di sé si finisce per trattare di queste due categorie.
Tra argomentazioni e narrazioni, pensiero e corpo le abitano. Leggendole e interpretandole per la loro… qualità. Intrinseca e apparente.
Estate, andiamo. È tempo di vacare
Il tema della relazione individuale col tempo è perfino abusato né potrebbe, dunque, non esserlo. Trattarne tra le sollecitazioni evasive dell’estate non può che significare prendere in considerazione quel presunto vuoto evocato dal verbo latino vacare. Chissà se gli esseri umani sono mai stati davvero capaci di rimanere vacui, liberi, sgombri e senza occupazioni secondo quanto il dizionario etimologico ricorda pertenere al termine vacanza.
A voler considerare che la divertente Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni è del 1761 dovremmo riconoscere che le ossimoriche smanie connesse al riposo son cominciate presto. Nel giro di duecento anni il capitalismo liberale ha inventato una vera e propria industria delle vacanze. Da allora, un precipitare di assalti all’arma bianca da parte dei device tecnologici ha praticamente azzerato la nostra possibilità di “staccare la spina”. Perfino questa logora metafora linguistica non ha quasi più senso. Dov’è più, infatti, la spina da staccare?
Disimpariamo il superfluo
Notizie, telefonate di lavoro e post social impediscono di ottenere il silenzio necessario al benessere. Distraggono, consumano energie, rimpinzano la vita di paccottiglia, di occupazioni inutili, talora di false informazioni e quindi di false credenze. Con le quali non troviamo il tempo di entrare in reazione dialettica per analizzarle in modo critico. E che si sedimentano nell’anima esercitando un cattivo influsso sul profilo della nostra condotta; tanto più se non ne siamo coscienti.
Paragono questa profluvie di sollecitazioni che ci sottraggono occasioni di intelligenza alla teoria sulle arti liberali espressa da Seneca nell’epistola 88 a Lucilio. Impariamo un mucchio di cose e non sappiamo nulla. Siamo «incapaci di apprendere il necessario, perché abbiamo imparato il superfluo».
Ma entrare in relazione con noi stessi, lasciare affiorare le tante parti che ci compongono e da cui ci lasciamo comporre è tutt’altro che semplice.
È una pratica di attenzione che richiede costanza, sollecitudine e distese di solitudine e quiete.
Restare sgombri per la virtù
Per questo, garantirci il tempo vuoto del riposo sarebbe assai prezioso.
Il filosofo e drammaturgo stoico non ha dubbi nel rivolgersi all’amico Lucilio:
La saggezza è cosa grande e vasta; ha bisogno di uno spazio sgombro; si devono acquisire nozioni sull’umano e il divino, sul passato e il futuro, sull’effimero e l’eterno, sul tempo. […] Eliminiamo dal nostro animo le nozioni superflue perché questi problemi così numerosi e importanti possano trovare campo libero. La virtù non si va a rinchiudere in stretti confini; una cosa grande necessita di un ampio spazio. Bisogna scacciare tutto dal proprio petto e lasciarlo sgombro per la virtù.
Forse è perché non abbiamo abbastanza interstizi che ogni volta che un’occupazione qualunque arriva a compimento ci pare che la misura fosse colma. Eppure è proprio perché siamo perennemente abituati agli ingombri che, paradossalmente, reggiamo per forza d’inerzia il sovraffaticamento e il logorio.
Il silenzio come rivoluzione
Ricordate le tragiche avventure di Remo e Augusta Proietti — al secolo Alberto Sordi e Anna Longhi — alle prese con la necropoli di Cerveteri, il cibo dietetico, le composizioni di Cage e la Biennale di Venezia? I figli eruditi e snob avevano stabilito per i genitori, fruttivendoli illetterati, un fitto programma di “vacanze intelligenti” ricompensato da una spaghettata liberatoria.
Ecco, riappropriamoci della libertà prima che sia troppo tardi. Quella libertà fatta di saggezza, fortezza, nobiltà cui si approda con l’esercizio quotidiano della cura. «La vita è troppo breve per spenderla in attività che non vanno al cuore di ciò che umano», come, sulla scorta di Seneca, suggerisce la filosofa americana Martha Nussbaum.
Almeno in vacanza, diventiamo intransigenti!
Chiudiamo le porte al rumore consueto, alle chiacchiere banali, alla superficialità che consuma energia e dedichiamoci all’arte sublime di restare umani. Forse il gesto rivoluzionario più estremo che sia concesso alla nostra era.
Troviamo il coraggio di spegnere i cellulari. Assumiamoci la responsabilità di non leggere i giornali. Scarichiamo gli amici dei social. Per qualche giorno facciamo il vuoto.