La felicità misurata sul possesso dev’essere transeunte. Facciamo di noi stessi un’obiezione efficace all’artificio che ci vuole clienti del mondo

di Francesca Guercio – articolo apparso per la prima volta sul sito www.benessereitalia360 il 19.11.2019

Il legame serrato tra storia sociale e storia individuale determina tanto in profondità la condizione umana che può essere eluso solo a costo di forzature arbitrarie e, soprattutto, transitorie. Da quando il sociologo Charles Wright Mills pubblicò il suo celebre L’immaginazione sociologica nel 1959 questa evidenza è divenuta di pubblico dominio. Tanto da segnare con autorevolezza i decenni successivi. Le lotte studentesche e l’impegno femminista insistevano su cardini dipendenti dalla presa d’atto di questa verità. La contestazione dei pregiudizi diffusi nella società e nella politica così come gli atti di disobbedienza civile conseguivano a occasioni organizzate di riflessione sulla propria condizione. La valorizzazione della propria identità era, insieme, principio e fine di una resistenza che non smetteva di essere collettiva.

È proprio in ambito femminista, del resto, che nasce uno slogan divenuto famoso: “Il personale è politico”.

Dalla felicità all’eudaimonia

Carol Hanisch, che lo usò nel 1970, l’aveva ideato per contrastare quanti derubricavano gli allora consueti incontri di autocoscienza a sedute di psicoterapia.

La terapia presuppone che qualcuno sia malato e che esista una cura, una soluzione personale. […] queste sedute analitiche sono invece una forma di azione politica.

Se un’opportunità di nuova fioritura è concessa alla generazione contemporanea essa non può che passare da un ripensamento della questione individuale come questione politica. Sovvertendo l’idea ormai diffusa delle politiche identitarie, che confina la protesta in luoghi periferici. Talora amplificatori di infelicità

Sganciata dall’iniziativa privata che legge il disagio come malattia personale per la quale desiderare una soluzione personale, la ricerca del benessere diviene così un impegno etico. La felicità diviene eudaimonia!

Tracciando un percorso «dalla psicoanalisi alla pratica filosofica»in La casa di Psiche, Galimberti semplifica il concetto richiamando l’uomo all’espressione del buon diavolo (eu dáimon) che ne determina l’ethos.

L’attività contemplativa ha bisogno della pòlis

La beatitudine dell’eudaimonia è emancipata tanto dall’atarassia stoica e dal sacrificio cristiano quanto dal desiderio. Non ignora il mondo e i piaceri che offre né li disprezza. Soltanto, ravvisa un piacere più elevato nella libera realizzazione di sé in rapporto alle cose e alle persone. Con Aristotele, riconosce nella felicità «un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta».E proprio in ragione di quel sostantivo – “attività” –mentre allude alle qualità straordinarie della contemplazione non smette di guardare al terreno della pòlis. È nella struttura societaria che il singolo esprime e realizza se stesso in ogni forma possibile; inclusa quella contemplativa cui, pure, viene conferito tanto pregio.

Il concetto di “attività” richiama altresì all’impegno di riassestarsi nel corso dell’evoluzione, accettando di non dare alcuna acquisizione come valida per sempre. Con un senso di responsabilità che divenga abito di giustizia.

Un sistema ingiusto produce infelicità

L’avvertimento dell’ingiustizia, del resto, è sempre causa forte dell’infelicità umana. E nella società della Quarta Rivoluzione Industriale l’ingiustizia che scatena rancore e populismo ruota in gran parte attorno alle aberrazioni dell’economia. All’arrembaggio col vessillo della “customizzazione”, perfino la nomenclatura degli organi d’informazione ha trasformato i “cittadini” in “consumatori” senza che ce ne accorgessimo. “Acquisto, dunque sono felice” urla una voce trasversale a ogni comunicazione, non solo genuinamente pubblicitaria. “Non acquisto, dunque sono infelice”, risponde l’eco.
Ma va de sé: una felicità misurata sul possesso di merci deve per sua natura essere transeunte. Il cittadino/consumatore dovrà sentirsi appagato dall’oggetto per il tempo che basta a desiderarne un altro. Pena, il collasso del sistema. … Quel sistema ingiusto che ci procura infelicità. Alla quale tentiamo di porre rimedio acquistando. Così generando nuova infelicità. Come in quelle storie distopiche in cui il protagonista ogni mattina si sveglia, ed è sempre lo stesso giorno.

Il mito ingenuo della felicità individuale

In una configurazione socio-economica che, per funzionare, collettivizza, considerare la questione della felicità come un fatto individuale non è tanto sbagliato, quanto, semplicemente, ingenuo.

La condizione più piena di eudaimonia richiede un profondo ripensamento del celeberrimo principio della Costituzione degli Stati Uniti d’America ispirato dal filosofo illuminista Gaetano Filangieri. Il diritto alla Vita, alla Libertà e al perseguimento della Felicità si nutriranno allora proficuamente degli appelli di un altro, più noto, filosofo illuminista. Immanuel Kant. Che a più riprese sottolinea la necessità di distinguere, nell’uomo, il valore della Vita da quello della Persona.  Per attribuire al secondo l’onorabilità che s’addice a un principio sovraindividuale.

I doveri verso se stessi sono indipendenti dal conseguimento di qualsiasi vantaggio e considerano esclusivamente la dignità dell’uomo; essi si richiamano al fatto che noi non possediamo una libertà illimitata nei confronti della nostra persona e che in essa noi siamo tenuti a rispettare l’umanità stessa.

Rispettare in sé l’umanità stessa

Rammenta il pensatore tedesco in una delle Lezioni di etica. E altrove: «l’uomo può disporre del suo stato, ma non della sua persona; egli è a se stesso un fine e non un mezzo».

Nella nostra persona, dunque, siamo tenuti a rispettare l’umanità intera. Soltanto rispondendo al monito di questo arricchimento di senso è possibile per il singolo evitare di valutare gli altri come ostacoli al perseguimento della felicità. Ovvero passare dall’espressione limitata della Felicità a quella più completa dell’Eudaimonia.

Se, come scrive Democrito, «felicità e infelicità sono fenomeni dell’anima», l’anima dell’uomo, incarnata, si dispiega unicamente “in situazione”. Pensando le cose del mondo, tra le cose del mondo. Un individuo “eudaimonico” è quanto di più distante dall’individuo “edonico” che i meccanismi della customizzazione ingozzano come oche da foie gras. È un individuo che, per sé e in cooperazione con gli altri, si dedica alla realizzazione di una libertà pienamente compiuta.

 

 

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